Le parole convincono le menti, i fatti trascinano i cuori!
“Quando cambi il tuo modo di guardare alle cose, le cose che guardi cambiano”
Wayne Dyer
Ci è capitato diverse volte, in questi anni, di essere chiamati da enti del mondo non-profit per aiutarli a riorganizzare il proprio lavoro. Si tratta di un’esperienza affascinante e impegnativa, ancora poco diffusa, che emerge in tutta la sua importanza soprattutto quando l’ente non riesce a trovare i fondi necessari per continuare a svolgere la propria mission. In questo senso, sta diventando sempre più importante il tema della rendicontazione del proprio lavoro (“cosa ho fatto”) e dell’impatto sociale (“quale cambiamento ho prodotto nel contesto in cui ho operato”).
Per fare questo occorre avere un’organizzazione solida che sappia documentare il proprio lavoro. Un tema “caldo” nel mondo del non profit, che da un lato vede gli enti spaventati dall’idea di perdere la propria identità ed entrare in una logica efficientista, attenta al risultato e non più soltanto alle persone; dall’altro i consulenti che sentono questa “sfida” come troppo ardua e insuperabile.
Queste “paure” possono diventare un alibi per rinunciare a procedere, ma possiamo – invece – trasformarle in opportunità, sia per gli enti che per i consulenti, quando:
– proviamo a metterci nei panni di chi abbiamo di fronte: quella che il filosofo Edmund Husserl chiama “entropatia”, ossia la capacità di capire le categorie interpretative del mondo dell’altro;
– non promettiamo soluzioni facili, ma siamo capaci di aprire nuove strade;
– cerchiamo di co-costruire un progetto che possa portare del bene, facendo luce anche su ciò che di bene non porta.
Con queste attenzioni, le parti (quella riceve la consulenza a e quella che la fornisce) possono imparare a “guardare la consulenza” non più come un rapporto univoco, ma come un rapporto “sinallagmatico”, dove troviamo la prestazione, dell’ente che vuol fare del “bene” e la controprestazione del consulente che “vuole contribuire a far fare bene il bene”.